L'arte di ascoltare
Autore: PLUTARCO
l. Ti invio, caro Nicandro, la stesura
del discorso da me tenuto su come si ascolta, perché tu sappia disporti in modo
corretto all'ascolto di chi si rivolge a te con la voce della
persuasione, ora che hai indossato la toga virile e ti sei liberato da chi ti
dava ordini'.
Questa condizione di «anarchia», che
alcuni giovani, ancora immaturi sul piano formativo, sono portati a confondere
con la libertà, fa si che le passioni, quasi fossero sciolte dai ceppi, diventino
per loro padroni più duri dei maestri e dei pedagoghi di quando
erano ragazzi.
Insieme con la tunica, dice Erodoto,
le donne si spogliano anche del pudore: Cosi ci sono giovani che nell'atto
stesso di deporre la toga puerile, depongono anche ogni senso di pudore e di
rispetto, e sciolto l'abito che li teneva composti si riempiono subito di
sregolatezza.
Tu, invece, che in più occasioni hai
avuto modo di ascoltare che seguire Dio ed obbedire alla ragione sono la stessa
cosa, devi pensare che il passaggio dalla fanciullezza all'età adulta, per
quelli che ragionano bene, non significa non aver più un'autorità cui
sottostare, ma semplicemente cambiarla, perché al posto di una persona
stipendiata o di uno schiavo essi assumono a guida divina dell'esistenza
la ragione.
Quella ragione, i cui seguaci è giusto
ritenere i soli uomini liberi, dato che solo loro hanno imparato a volere ciò
che si deve e perciò stesso vivono come vogliono. Ignobile, invece, meschino ed
esposto a grandi rimorsi, è l'arbitrio che si esplica negli impulsi e nelle
azioni che nascono da immaturità e falsi ragionamenti.
2. I cittadini naturalizzati che
provengono da un altro paese e sono in tutto e per tutto stranieri
assumono atteggiamenti critici e insofferenti nei riguardi di molte usanze
locali, mentre chi vi viene dalla condizione di meteco' per il fatto di essere
cresciuto in familiarità e dimestichezza con quelle leggi, ne accetta gli
obblighi senza difficoltà e vi ottempera volentieri: cosi tu, che per
molto tempo sei cresciuto a contatto con la filosofia e fin dall'inizio
sei stato abituato a prendere misto al ragionamento. filosofico
tutto ciò che hai appreso e ascoltato da ragazzo, devi accostarti con
animo ben disposto, come uno di casa, alla filosofia, che è la sola a rivestire
i giovani dell'abito virile e realmente perfetto che viene dalla ragione.
Penso comunque che non ti dispiacerà
ascoltare qualche preliminare osservazione sul senso dell'udito, che, a detta
di Teofrasto, è collegato più di ogni altro alle passioni6 dato che non c'è
niente che si veda, si gusti o si tocchi, che produca sconvolgimento,
turbamenti o sbigottimenti paragonabili a quelli che afferrano l'anima quando
l'udito è investito da certi frastuoni, strepiti o rimbombi.
Ma a ben guardare esso ha più legami
con la ragione che con la passione, perché se è vero che molte sono le zone e
le parti del corpo che offrono al vizio una via d'accesso per cui arriva ad
attaccarsi all'anima, per la virtù l'unica presa è data invece dalle orecchie
dei giovani, sempreché siano pure e tenute fin dall'inizio al riparo dai guasti
dell'adulazione e dal contagio di discorsi cattivi.
Per questo Senocrate invitava ad
applicare i paraorecchi ai ragazzi più che ai lottatori, perché a questi ultimi
i colpi sfigurano le orecchie, mentre ai primi i discorsi distorcono il
carattere'.
Egli non intendeva, comunque, che
dovessero essere posti in una sorta di isolamento acustico o fatti diventare
sordi: consigliava solo di proteggerli dai discorsi cattivi prima che altri
buoni, come guardie allevate dalla filosofia a protezione del carattere, non ne
avessero saldamente occupato la postazione più precaria e maggiormente esposta
alla voce della persuasione.
L'antico Biante, quando Amasi gli
chiese di inviargli la porzione di vittima sacrificale che a suo giudizio fosse
migliore e al tempo stesso peggiore, ne recise la lingua e gliela mandò,
intendendo dire che nella parola sono insiti i danni e i vantaggi più grandi.
La maggior parte delle persone, quando
bacia teneramente i propri piccoli, ne prende le orecchie tra le mani e li
invita a fare altrettanto, con scherzosa allusione al fatto che si deve amare
soprattutto chi fa del bene attraverso le orecchie.
E evidente che un giovane che fosse
tenuto lontano da qualunque occasione di ascolto e non assaporasse nessuna
parola, non solo rimarrebbe completamente sterile e non potrebbe germogliare
verso la virtù, ma rischierebbe anche di essere traviato verso il vizio,
facendo proliferare molte piante selvatiche dalla sua anima, quasi fosse un
terreno non smosso ed incolto.
Le pulsioni verso il piacere e le
diffidenze verso la fatica sono sorgenti per cosi dire native, e non
esterne o fatte affluire in noi dalle parole, di infinite passioni e malattie,
e se sono lasciate libere di riversarsi dove natura le guida e non si provvede
a frenarle con buoni ragionamenti bloccandone o deviandone il naturale fluire,
non c'è belva che non possa apparire più mansueta di un uomo.
3. Dal momento dunque che l'ascolto
comporta per i giovani un grande profitto ma un non minore pericolo, credo sia
bene riflettere continuamente, con se stessi e con altri, su questo tema.
I più invece, a quanto ci è dato
vedere, sbagliano, perché si esercitano nell'arte del dire prima di essersi
impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare un discorso
ci sia bisogno di studio e di esercizio, ma che dall'ascolto, invece, possa
trarre profitto anche chi vi s'accosta in modo improvvisatolo.
Se è vero che chi gioca a palla impara
contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell'uso della parola, invece, il
saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui
concepimento e gravidanza vengono prima del parto.
I parti e i travagli «di vento» delle
galline si dice diano origine a gusci imperfetti e privi di vita": cosi
realmente «di vento» è il discorso che esce da giovani incapaci di ascoltare e
disabituati a trarre profitto attraverso l'udito, e oscuro ed ignoto si
disperde sotto le nubi.
Quando travasa qualcosa, la gente
inclina e ruota i vasi perché l'operazione riesca bene e non ci siano
dispersioni, mentre quando ascolta non impara ad offrire se stessa a chi parla
e a seguire attentamente, perché non le sfugga nessuna affermazione utile.
E quel che è più ridicolo è che se
incontrano uno che racconta di un banchetto, di un corteo di un sogno o
dell'alterco avuto con un altro, restano ad ascoltarlo in silenzio e insistono
per saperne di più; ma se uno li tira da parte e vuol dare loro un insegnamento
utile, spronarli a qualche dovere, redarguirli in caso di errore o addolcirli
quando sono irritati non lo sopportano e se ne hanno la possibilità si sforzano
d'averla vinta e si mettono a controbattere le sue parole o, se proprio non ce
fanno, lo piantano in asso e vanno alla ricerca di altri insulsi discorsi,
riempiendosi le orecchie, quasi fossero vasi difettosi e incrinati, di
qualunque cosa piuttosto che di ciò di cui hanno bisogno.
I bravi allevatori rendono sensibile
al morso la bocca dei cavalli: cosi i bravi educatori rendono sensibili alle
parole le orecchie dei ragazzi, insegnando loro non a parlare molto, ma ad
ascoltare molto.
Nel tessere gli elogi di Epaminonda,
Spintaro diceva che non era facile incontrare uno che sapesse di più e parlasse
di menol. E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una
lingua sola, perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare.
4. Il silenzio, dunque, è ornamento
sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è in modo particolare quando,
ascoltando un altro, evita di agitarsi o di abbaiare ad ogni sua affermazione,
e anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta ed attende che chi
sta dissertando sia arrivato alla conclusione; e non appena ha finito si guarda
dall'investirlo subito di obiezioni, ma, come dice Eschine lascia passare un
po' di tempo per consentire
all'altro di apportare eventuali
integrazioni o di rettificare e sopprimere qualche passaggio.
Chi si mette subito a controbattere
finisce per non ascoltare e non essere ascoltato, e interrompendo il discorso
di un altro rimedia una brutta figura. Se invece ha preso l'abitudine di
ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un
discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l'inutilità o falsità di un
altro, e per di più dà di sé l'immagine di una persona che ama la verità e ori
le dispute, ed è aliena dall'essere avventata o polemical.
Non è sbagliato. quello che dicono
alcuni, e cioè che se si vuole versare qualcosa di buono nei giovani bisogna
prima sgonfiarli, più di quanto non si faccia con l'aria contenuta negli otri,
di ogni presunzione e albagia, perché altrimenti, pieni come sono di alterigia
e di boria, non riuscirebbero ad accogliere nulla.
5. L'invidia poi, congiunta a malizia
e livore, non va bene in nessun caso, e se la sua presenza ostacola ogni retto
comportamento, diventa pessima assistente e consigliera di chi ascolta,
perché gli rende fastidiose, sgradevoli e inaccettabili le osservazioni utili,
dato che gli invidiosi godono di qualunque altra cosa piuttosto che di quelle
dette bene.
Eppure chi si sente morderé dalla
ricchezza, la fama o la bellezza di un altro è solo invidioso in quanto lo
tormenta la felicità altrui: chi invece soffre nel sentire un discorso giusto è
infastidito dai suoi stessi beni, perché come la luce è un bene per chi può
vedere, cosi un discorso lo è per chi può udire, sempreché lo voglia
accogliere.
Ma se negli altri casi l'invidia nasce
da certe disposizioni rozze e malvagie, quella rivolta contro chi parla muove
da inopportuno esibizionismo e mala ambizione e non consente a chi si
trova in questo stato d'animo di concentrarsi su ciò che viene detto, ma ne
disturba e distrae la mente, che ora si mette ad osservare se le proprie
capacità siano inferiori a quelle di chi sta parlando e ora invece si sofferma
a guardare se gli altri seguano compiaciuti ed ammirati, e si sente urtata
dagli assensi e si indispettisce con i presenti se mostrano di gradire chi
parla.
E quanto ai discorsi, essa lascia
cadere in oblio quelli già pronunciati, perché rammentarli è una sofferenza, e
si agita e trema al pensiero che quelli successivi possano essere ancora
migliori; non vede l'ora che chi sta tenendo un discorso bellissimo abbia
terminato di parlare, e appena l'ascolto è finito non ripensa a niente di quel
che ' stato detto, ma si mette a contare, come fossero voti, le esclamazioni e
gli umori dei presenti, e fugge e schizza via come impazzita da chi approva,
correndo ad imbrancarsi con chi solleva critiche e distorce le argomentazioni
svolte; se poi non c'è niente da distorcere, tira fuori che altri hanno saputo
sviluppare meglio lo stesso tema e con maggior efficacia, fino a quando, a
forza di svilire e infangare, non si sia
resa l'ascolto inutile e vano.
6. Perciò, stipulata una tregua tra
voglia di ascoltare e tentazioni esibizionistiche, dobbiamo disporci all
ascolto con animo disponibile e pacato, come fossimo invitati a un banchetto
sacro o alle cerimonie preliminari di un sacrificio, elogiando l'efficacia di
chi parla nei passaggi riusciti e apprezzando perlomeno la buona volontà di chi
espone in pubblico le proprie opinioni e cerca di convincere gli altri
ricorrendo agli stessi ragionamento che hanno persuaso lui. Non dobbiamo
pensare che gli esiti felici dipendano dalla fortuna o che vengano da soli, ma
che siano piuttosto frutto di applicazione, duro lavoro e studio, e perciò,
spinti da sentimenti di ammirazione e di emulazione dovremo cercare di
imitarli; in caso di insuccesso, invece, è necessario rivolgere la nostra
attenzione alle cause e alle ragioni che l'hanno determinato. Senofonte dice
che i bravi padroni di casa sanno trarre profitto dagli amici e dai nemici:
cosi le persone sveglie e attente sanno trarre beneficio da chi parla non solo
quando ha successo ma anche quando fallisce, perché la pochezza concettuale, la
vacuità espressiva, il portamento volgare, la smania, non disgiunta da goffo compiacimento,
di consenso e gli altri consimili difetti, ci appaiono con più evidenza negli
altri quando ascoltiamo che in noi stessi quando parliamo.
Dobbiamo perciò trasferire il giudizio
a chi parla a noi stessi, valutando se anche noi non cadiamo inconsciamente in
qualche errore del genere. Non c'è cosa al mondo più facile del criticare il
prossimo, ma atteggiamento inutile e vano se non ci porta a correggere o
prevenire analoghi errori. Di fronte a chi sbaglia non dobbiamo esitare a
ripetere in continuazione a noi stessi il detto di Platone: «Sono forse anch'io
cosi?».
Come negli occhi di chi ci sta vicino
vediamo riflettersi i nostri, cosi dobbiamo ravvisare i nostri discorsi in
quelli degli altri, per evitare di disprezzarli con eccessiva durezza e per
essere noi stessi più sorvegliate quando arriva il nostro turno di parlare. A
tal fine è utile anche ricorrere a un confronto se, una volta finito l'ascolto
e rimasti soli, prenderemo qualche passaggio che a nostro giudizio sia stato
trattato in modo maldestro o inadeguato e proveremo a ridirlo noi, volgendoci a
colmare una deficienza qui, a correggerne una là, a esporre lo stesso pensiero
con parole diverse o tentando di affrontare l'argomento in maniera radicalmente
nuova. Cosi fece anche Platone con fl discorso scritto da Lisia. Non è
difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da altri anzi è quanto mai
facile; ben più faticoso,
invece, è contrapporne uno migliore.
Alla notizia che Filippo aveva raso al suolo Olinto, lo spartano osservò: «Ma
lui non riuscirebbe a riedificare una città cosi grande!». Se dunque nel
dissertare sullo stesso argomento ci sembrerà di non essere 'molto superiori a
chi ne ha trattato, deporremo gran parte del nostro disprezzo e ben presto,
smascherati da simili confronti, svaniranno in noi presunzione ed orgoglio.
L´ARTE DI ASCOLTARE 2
Plutarco
7. Antitetico all'atteggiamento
denigratorio è quello facilmente incline all'ammirazione, che denota
indubbiamente una natura più cordiale e pacata, ma esige anch'esso non poca
accortezza, o addirittura ne richiede una maggiore, perché se i denigratori e
gli arroganti ricavano da chi parla un profitto minore, gli entusiasti e gli
ingenui ne ricevono danni maggiori e non smentiscono il detto eracliteo: «Lo
stupido suole stupirsi a ogni parola».
Bisogna essere generosi nell'elogiare
chi parla ma cauti nel prestare fede alle sue parole; si deve essere spettatori
bendisposti e non prevenuti dello stile e della dizione di chi dibatte, ma
critici attenti e severi dell'utilità e veridicità di ciò che dice, per non
attirarci l'odio suo e al tempo stesso evitare che le sue parole possano
danneggiarci, dato che, senza nemmeno accorgercene, siamo portati ad accogliere
in noi molti ragionamenti falsi e cattivi per simpatia o fiducia verso chi
parla.
Le autorità spartane, sentita la
proposta avanzata da un uomo che viveva in modo riprovevole, la approvarono, ma
subito ordinarono a un altro, che godeva della stima generale per la sua
condotta di vita e moralità, di
ripresentarla, cercando in modo davvero corretto e politicamente educativo di
abituare il popolo a lasciarsi influenzare dalla statura morale dei consiglieri
più che dalle loro parole.
Quando invece si tratta di una
discussione filosofica dobbiamo lasciar perdere la reputazione di chi parla e
valutare esclusivamente il valore intrinseco delle sue argomentazioni. Come in
guerra, anche in un ascolto ci sono molti vani apparati: la canizie,
l'intonazione suadente, lo sguardo accigliato e la tendenza all'autoelogio di
chi parla, ma soprattutto le acclamazioni, gli applausi e i sobbalzi del
pubblico sconcertano l'ascoltatore giovane ed inesperto, che finisce per essere
come trascinato via dalla corrente.
Anche nello stile c'è qualcosa di
ingannevole quando, fluendo seducente e copioso, investe i concetti in modo
enfatico e ricercato. Gran parte degli errori commessi da chi canta con
l'accompagnamento dell'aulo sfugge a chi ascolta: cosi uno stile ridondante e
pomposo abbacina l'ascoltatore e gli impedisce di intravedere i concetti. Si
narra che Melanzio, sentendosi chiedere un parere su una tragedia di Diogene,
rispondesse che non gli era riuscito di vederla perché eclissata dalle parole:
cosi la maggior parte dei sofisti, quando disserta o declama, non si limita ad
utilizzare le parole per velare i pensieri, ma addolcendo la voce con
modulazioni, morbidezze e trilli, manda in delirio e in visibilio l'uditorio,
elargendo un piacere vano e ricevendone in cambio una fama ancora più vana.
Sicché calza loro perfettamente quel
che si racconta a proposito di Dionisio, che nel corso di un'esibizione aveva
promesso grandi ricompense a un famoso citaredo, ma alla fine non gli aveva
dato nulla, con la scusa che lui, i suoi impegni, li aveva già onorati: «Perché
per tutto il tempo in cui io mi beavo del tuo canto, gli disse, tu gioivi di
speranza».
Questo è appunto il compenso che i
sofisti ricavano da simili esibizioni: sono ammirati per tutto il tempo in cui
riescono a dilettare, ma poi, appena il piacere dell'ascolto è finito, la fama
li ha già abbandonati e vanamente hanno sprecato gli altri il tempo, loro
addirittura la vita.
8. Perciò bisogna eliminare dallo
stile ogni eccesso e vacuità, mirando esclusivamente al frutto e prendendo a
modello le api e non le tessitrici di ghirlande, perché queste, preoccupandosi
solo delle fronde fiorite e profumate, intrecciano e intessono una composizione
soave ma effimera e infruttuosa, mentre le api, pur volando in continuazione su
prati di viole, di rose e di giacinti, vanno a posarsi sul timo, la più acre e
pungente delle piante, e vi si fermano al biondo miele pensando; poi
attinto qualcosa di utile volano via all'opera loro.
Cosi l'ascoltatore fine e puro deve
lasciar perdere le parole fiorite e delicate e pensare che gli argomenti
teatrali e spettacolari sono solo «pastura di fuchi» sofisticheggianti, ed
immergersi invece con la concentrazione fino a cogliere il senso profondo del
discorso e la reale disposizione d'animo di chi parla, per trarne ciò che è
utile e giovevole, rammentando a se stesso che non è andato a teatro o in un
odeon, ma in una scuola e in un'aula per raddrizzare la propria vita con la
parola.
Ne consegue la necessità di esaminare
e giudicare l'ascolto partendo da se stesso e dal proprio stato d'animo,
valutando se
qualche. passione sia divenuta più
debole, qualche fastidio più leggero, se si siano rinsaldati in lui
determinazione e volontà, se senta in cuor suo entusiasmo per la virtù e per il
bene.
Non ha senso, quando ci si alza dalla sedia
del barbiere, guardarsi allo specchio e passarsi la mano sul capo, esaminando
il taglio dei capelli e la diversa pettinatura, e invece all'uscita da una
lezione e dalla scuola non guardare subito in se stessi per apprendere se l'anima
abbia deposto qualche peso soverchio e superfluo e sia divenuta più leggera e
più dolce. «Se un bagno o un discorso non purificano - dice Aristone - non
hanno alcuna utilità"
9. Goda dunque il giovane a trarre
profitto dai discorsi, ma non deve vedere nel diletto lo scopo dell'ascolto e
non deve pensare di allontanarsi dalla scuola di un filosofo «canticchiando
radioso» o cercare di profumarsi quando invece ha bisogno di fomenti e di
cataplasmi, ma essere grato se qualcuno ricorre ad acri parole, come con gli
alveari ci si serve del fumo, per ripulire la sua mente, che è piena di
molta caligine e ottusità.
Chi parla, è vero, non deve affatto trascurare
che nel proprio stile vi siano piacevolezza e persuasività, ma di questo
il giovane non deve minimamente darsi pensiero, almeno in un primo momento.
Successivamente forse, come chi beve e
solo dopo aver appagato la sete si mette ad osservare le cesellature delle
coppe e se le rigira tra le mani, cosi anche il giovane, dopo essersi riempito
di riflessioni e aver ripreso fiato, si volga ad esaminare se lo stile contiene
qualche eleganza e raffinatezza.
Chi invece non si tiene stretto fin
dall'inizio ai concetti, ma pretende che lo stile subito sia attico e sobrio,
somiglia a uno che rifiutasse di bere un antidoto se la coppa non è di ceramica
coliade attica" o di indossare d'inverno un mantello se la lana non è di
pecore attiche, ma siede inerte ed immobile, avvolto, per cosi dire, nel
mantello leggero e sottile del linguaggio di Lisia.
Queste fisime hanno prodotto nelle
scuole molto deserto di intelletto e di buoni pensieri, molta pedanteria
formale e verbosità, dato che gli adolescenti non osservano la vita, le azioni
e la condotta pubblica di un uomo che si presenta come filosofo, ma gli
ascrivono a lode i lemmi, le frasi, la bravura nell'esposizione, non sapendo e
non volendo indagare se ciò che dice sia utile o inutile, se sia indispensabile
o al contrario vuoto e superfluo.
10. A questi precetti segue quello
relativo ai quesiti. Quando si è invitati a cena si deve mangiare quello che
viene imbandito e non chiedere dell'altro o mettersi a criticare: così chi è
andato al banchetto delle parole, se il tema è stabilito, ascolti in silenzio
chi parla, perché portandolo a deviare su altri argomenti, interrompendone
l'esposizione con continue domande e sollevando sempre nuove difficoltà, non
risulta né piacevole né garbato come ascoltatore e ottiene di non ricavare
personalmente chi parla e quello alcun profitto e di confondere insieme che
dice; se invece è chi parla a sollecitare l'uditorio a
porre domande e quesiti, si dovrebbe
sempre dare a vedere di sollevarne di utili e di necessari.
Odisseo è deriso dai pretendenti
domandando tozzi di pane, e non spade o lebeti perché per loro è segno di
grandezza d'animo non solo fare grandi doni, ma anche richiederli. Ancor più,
però, si riderebbe di un ascoltatore che sollecitasse chi disserta su questioni
piccole e cavillose, come solitamente fanno certi giovani che ricorrendo ad
estreme sottigliezze e palesando la propria attitudine per la dialettica o la matemática
pongono quesiti sulla divisione delle proposizioni indefinite e su quale sia il
movimento secondo il lato o secondo la diagonale.
A costoro si può ripetere la risposta
data da Filotimo a un uomo settico e macilento, che si era rivolto a lui per
chiedergli una curetta contro il giradito; quando dal colorito e dalla
respirazione si fu reso conto delle sue condizioni: «Mio caro - gli disse - nel
tuo caso non ha senso parlare di giradito».
Nemmeno per te, ragazzo mio, è tempo
di indagare su problemi di quel genere, ma su come tu possa liberarti da
presunzione, alterigia, amori e insulsaggine, e costruirti una vita modesta e
sana.
11. Quando si formula una domanda
bisogna assolutamente rapportarsi all'esperienza e all'attitudine di chi parla,
ponendogli quesiti sugli argomenti in cui «è più forte di se stesso» ed
evitando di mettere in difficoltà chi è esperto soprattutto di filosofia morale
sottoponendogli complicati problemi di fisica o di matematica, e di trascinare
al contrario chi vanta conoscenze in
campo scientifico a emettere giudizi
sulle proposizioni connesse o a risolvere i sofismi «mentitori». Chi tentasse
di spaccare la legna con una chiave o di aprire la porta con una scure non
darebbe l'impressione di screditare quegli strumenti ma piuttosto di rinunciare
alla loro propria utilità e funzione: cosi chi avanza richieste su temi sui
quali chi parla non ha attitudine o non si è esercitato, si pone da solo
nell'impossibilità di cogliere e ricevere il frutto che l'altro ha ed è
disposto ad offrire, e oltre a danneggiare se stesso ottiene anche di essere
tacciato di malizia e livore.
12. Ci si deve inoltre guardare dal
porre troppe domande e dall'intervenire in continuazione, perché anche questo
atteggiamento denota, in certo qual modo, una volontà esibizionistica.
Ascoltare con calma gli interventi di un altro è indizio invece di persona
desiderosa di apprendere e rispettosa del prossimo, a meno che uno non senta
dentro qualcosa che lo turba e non l'opprima una passione che dev'essere
bloccata o un tormento che deve essere lenito. Dice Eraclito che «la propria
ignoranza è meglio celarla» ma forse è meglio, invece, palesarla e curarla. Se
accessi d'ira, attacchi di superstizione, forti contrasti con i familiari o una
folle passione d'amore che tocca della mente le corde da non toccare, ci
sconvolgono la mente, non bisogna rifugiarsi dove si parla d'altro per non
esporci a critiche, ma frequentare le scuole in cui si discute proprio di
questi argomenti e dopo la discussione, consultare in privato quelli che ne
hanno parlato e porre loro ulteriori domande. Non si deve agire insomma come la
maggioranza della gente, che ascolta volentieri e ammira i filosofi quando
parlano d'altro, ma se poi il filosofo, lasciati perdere gli altri, si rivolge
a loro in privato e apertamente menziona ciò che li riguarda, si risentono e lo
giudicano un impiccione. Generalmente pensano di Dover ascoltare i filosofi
nelle scuole come gli attori tragici a teatro e credono che una volta fuori non
si comportino per nulla meglio di loro. Questo ragionamento va bene per i
sofisti (che una volta scesi di cattedra e riposti libri e prontuari, nella
realtà del quotidiano operare appaiono meschini e inferiori ai più), ma nei
confronti dei veri filosofi è sbagliato, perché non ci si rende conto che la
loro serietà, lo scherzo, un cenno, un sorriso o uno sguardo accigliato e
soprattutto le parole rivolte a ciascuno in privato apportano frutto e
giovamento a chi ha preso l'abitudine di ascoltarli con pazienza ed attenzione.
13. Anche il tributare elogi è compito
che richiede cautela e senso della misura perché difetto ed eccesso non
s'addicono a un uomo libero. Pesante e rozzo è l'ascoltatore che rimane freddo
e impassibile di fronte a qualunque riflessione, e pieno di una presunzione
incancrenita e di un'autoconsiderazione profundamente radicata, convinto com'è
di saper esprimere qualcosa di meglio di quel che sente dire, non batte ciglio,
come invece educazione vorrebbe, e non emette sillaba a testimonianza del fatto
che sta seguendo volentieri e con interesse, ma se ne resta in silenzio e
ostentando una gravità affettata e di maniera cerca di cattivarsi la
reputazione di persona di solide e profonde convinzioni, dando a vedere di
valutare gli elogi alla stregua del denaro e di pensare che nella proporzione
in cui se ne elargiscono agli altri si finisce per privarne se stessi. Molti
interpretano in modo erroneo e stonato quella frase di Pitagora, in cui egli
disse d'aver tratto dalla filosofia l'incapacità di stupirsi di qualunque
cosa39: costoro ne hanno ricavato invece il non saper elogiare e apprezzare
nulla, con la conseguente assunzione di un atteggiamento sprezzante e l'idea
che la dignità nasca dall'alterigia. Ora, è vero che il ragionamento filosofico,
grazie al processo conoscitivo e all'informazione sulle cause dei singoli
eventi, elimina il senso di meraviglia e di stupore che nasce dal dubio e
dall'ignoranza, ma non annulla certamente garbo, misura e affidabilità. Per le
persone realmente e coerentemente buone la soddisfazione più alta consiste nel
tributare il giusto riconoscimento a chi lo merita, ed effettivamente non c'è
onore più bello del rendere onore a un altro, perché proviene da esuberanza e
ricchezza di fama: chi invece è avaro di elogi per gli altri dà l'impressione di
esserne lui stesso povero ed affamato.
Opposto d'altro canto è
l'atteggiamento di chi, senza il minimo discernimento, ad ogni parola e ad ogni
sillaba si sofferma e grida: leggero come un uccello, costui riesce spesso
sgradito anche a chi dibatte e fastidioso sempre per gli altri che ascoltano,
perché contro voglia li eccita e li spinge ad imitarlo, quasi che un senso di
pudore li trascinasse a forza a fargli da eco. Cosi, senza aver tratto alcun
profitto per aver reso l'ascolto pieno di confusione e di trambusto con i suoi
elogi, se ne va portandosi appresso uno di questi tre titoli: ipocrita,
adulatore o incompetente perché questa è l'impressione che ha dato di sé.
Chi è chiamato a far da giudice in un
processo non deve ascoltare con malanimo o parzialità, ma secondo coscienza,
guardando alla giustizia; quando invece si ascolta una discussione filosofica
non ci sono leggi o giuramenti che ci impediscano di accogliere con simpatia
chi disserta. Anzi, gli antichi collocarono Ermes vicino alle Grazie, volendo
significare che un discorso richiede soprattutto grazia e gentilezza. Non
è possibile che chi parla sia in assoluto talmente inetto ed impreciso da non
offrire niente che possa essere apprezzato: una riflessione sua, una citazione
altrui, l'argomento stesso e lo scopo del discorso, o almeno lo stile o la
disposizione della materia, come tra le ginestre e l'ononide irta di spine
spuntano i bucaneve dai delicati fiori.
C" chi riesce persuasivo anche
tessendo panegirici del vomito, della febbre e, per Zeus!, perfino della
pentola: e come potrebbe allora non dare assolutamente un po' di respiro e non
fornire un'occasione di elogio, ad ascoltatori benevoli e garbati, il discorso
pronunciato da chi in un modo o nell'altro gode fama o nome di filosofo? I
giovani in fiore, come dice Platone, eccitano sempre, in un modo o nell'altro
le nature sensuali: se sono di carnagione chiara, li chiamano «figli degli
Dei», se sono bruni «Virili»; a un naso aquilino danno l'eufemistico nome di «regale»,
a uno camuso di «grazioso»; un colorito giallastro diventa per loro del
«colore del miele», e cosi tutti li baciano e li amano perché l'amore, come
l'edera, è abile ad avvincersi con qualsiasi scusa.
A maggior ragione, dunque, chi si
diletta di ascoltare e ama i discorsi seri saprà sempre trovare qualche
elemento in base al quale apparirà elogiare motivatamente ogni singolo oratore.
Platone, ad esempio, pur disapprovando l'invenzione nell'orazione di Lisia e
criticandone la disposizione, ne elogia comunque lo stile e afferma che in lui
«ogni parola è chiara e rotondamente tornita». Si potrebbero biasimare i temi
di Archiloco, la versificazione di Parmenide la semplicità di Focilide la
verbosità di Euripide la discontinuità di Sofocle cosi come senza dubbio tra
gli oratori c'è chi non sa ritrarre i caratteri chi è fiacco nel destare
emozioni, chi è privo di grazia: ciò nonostante ciascuno di loro viene elogiato
per la peculiarità delle doti naturali che gli consentono di far presa e
trascinare. Anche all'ascoltatore, quindi, è data facile ed ampia possibilità
di mostrarsi cordiale con chi parla: ad alcuni basta, anche se non aggiungiamo
la testimonianza della voce, offrire uno sguardo mite, un volto pacato, una
disposizione benevola e non annoiata.
Per concludere, ecco alcune norme di
comportamento, per cosi dire generali e comuni, da seguire sempre in ogni
ascolto, anche in presenza di un'esposizione completamente fallita: stare
seduti a busto eretto, senza pose rilassate o scomposte; lo sguardo dev'essere
fisso su chi sta parlando, con un atteggiamento di viva attenzione;
l'espressione del volto dev'essere neutra e non lasciar trasparire non solo
arroganza o insofferenza ma persino altri pensieri e occupazioni. In ogni opera
d'arte, si sa, la bellezza deriva, per cosi dire, da molteplici fattori
che per una consonanza misurata e armonica pervengono a una proporzionata
unità, mentre basta una semplice mancanza o un'aggiunta fuori posto per' dare
subito vita alla bruttezza: analogamente, quando si ascolta, non solo sono
sconvenienti l'arroganza di una fronte corrugata, la noia dipinta sul viso, lo
sguardo che vaga qua e là, la posizione scomposta del corpo e le gambe accavallate,
ma sono da censurare, e richiedono molta circospezione, persino un cenno o un
bisbiglio con un altro, un sorriso, gli sbadigli sonnacchiosi, lo sguardo fisso
a terra e qualunque altro atteggiamento del genere.
L´ARTE DI ASCOLTARE 3
Plutarco
14. Altri pensano che chi parla abbia
dei doveri da assolvere e chi ascolta, invece, nessuno; pretendono che quello
si presenti dopo aver meditato ed essersi preparato con cura, mentre loro
invadono la sala liberi da ogni pensiero eriflessione, e prendono posto
esattamente come se fossero andati a un banchetto, a spassarsela, mentre altri
faticano. Eppure se persino un convitato che sappia stare in compagna, ha dei
doveri da assolvere, molti di più ne ha chi ascolta, perché è coinvolto nel
discorso ed è chiamato a cooperare con chi parla, e non è giusto che stia a
esaminarne con severità le stonature e a vagliarne criticamente ogni parola e
ogni gesto, mentre lui, senza doverne rispondere, si abbandona per tutta la
durata dell'ascolto a un contegno scomposto e variamente scorretto. Quando si
gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di
chi lancia: cosi in un discorso c'è sintonia tra chi parla e chi ascolta se
entrambi sono attenti ai loro doveri.
15. Nel manifestare il proprio
assenso, poi, bisogna guardarsi dall'usare le prime parole che vengono in mente.
Quando Epicuro, ad esempio, riferendosi alle lettere di alcuni amici, dice che
ne sente scaturire un fragore d'applausi, ci riesce stucchevole: cosi chi ai
nostri giorni introduce nelle sale dove parlano i filosofi epiteti stravaganti
come «divino!», «ispirato!», «inarrivabile!», quasi non bastassero più i
«bene!», «bravo!», «giusto!», con cui abitualmente manifestavano la propria
approvazione i discepoli di Platone, di Isocrate o di Iperide tiene un
comportamento oltremodo sconveniente e finisce per gettare cattiva luce su chi
parla, suggerendo l'impressione che questa richiesta di elogi superbi e
straordinari nasca da lui. Davvero fastidioso poi è chi ricorre al giuramento,
come fosse in tribunale, per testimoniare la propria approvazione nei confronti
di chi parla, e non meno lo sono quelli che sbagliano la mira nel riferirsi
alle qualità della persona e a un filosofo gridano «che sottigliezza!», a un
vecchio «che grazia!» o «che fiore!», trasferendo ai filosofi gli epiteti che
si usano con chi ama giwm e sfoggi di eloquenza nelle esercitazioni
scolastiche, o attribuendo a un discorso saggio elogi degni di una prostituta:
è come se si volesse cingere il capo di un atleta con una corona di gigli o di
rose e non di alloro o di oleastro! Il poeta Euripide stava suggerendo ai
suoi coreuti l'interpretazione di un passaggio lirico nel modo musicale
prescelto, quando uno di loro scoppiò a ridere: «Se tu non fossi
insensibile ed ignorante - gli disse - non rideresti nel vedermi cantare in
nussolidio»; cosi credo che un filosofo o un uomo politico potrebbero troncare
le intemperanze di un ascoltatore disinvolto dicendogli: «Tu mi sembri folle e
maleducato, perché altrimenti, mentre io sto insegnando o ammonendo o dissertando
sugli Dei, sullo Stato o su una carica pubblica, tu non ti metteresti a
canticchiare e danzare al ritmo delle mie parole». Prova a pensare in quale
confusione si verrebbero a trovare i passanti se sentissero urla e schiamazzi
provenire dalla sala dove sta parlando un filosofo: si chiederebbero imbarazzati
se quegli applausi non siano rivolti a un auleta, un citaredo o un danzatore.
16. Moniti e rimproveri, a loro volta,
non si devono ascoltare con indifferenza o viltà. Chi resta calmo e impassibile
nel sentirsi redarguire da un filosofo, al punto che nel sentirsi biasimare
sorride e riserva parole d'elogio a chi lo biasima, si comporta come i
parassiti che di fronte agli insulti di chi li mantiene, nella totale
sfacciataggine e sfrontatezza che li caratterizza, danno con la loro impudenza
un saggio di virilità non bello né schietto. Accettare senza irritazione
e con un sorriso una battuta priva d'insolenza, pronunciata per scherzo e con
arguzia, non è comportamento ignobile o grossolano, ma al contrario liberale e
conforme al costume laconico. Ascoltare invece una rampogna e un monito volti a
raddrizzare il carattere, che ricorrono a una parola di biasimo come a un
medicamento che brucia, senza farsi piccolo piccolo, imperlarsi di sudore,
sentirsi girare la testa e avvampare di vergogna nell'anima, ma restando
indifferente e con un ghigno beffardo e ironico dipinto sul volto, è proprio di
un giovane profondamente abietto e insensibile ad ogni forma di pudore per
inveterata abitudine agli errori, la cui anima, quasi fosse una carne dura e
callosa, non riceve lividi.
Cosi si comportano dunque i giovani di
questo tipo. Quelli di indole opposta, invece, anche se sono ripresi una sola
volta, scappano via senza volgersi indietro e fuggono lontano dalla
filosofia: cosi, pur avendo ricevuto dalla natura il senso del pudore come bel
principio di salvezza, lo gettano via per la loro delicatezza e mollezza, non
riuscendo a mantenersi saldi davanti ai rimproveri e ad accettare gli
emendamenti con la giusta forza d'animo, e finendo invece per porgere
l'orecchio ai melliflui e molli discorsi di certi adulatori o sofisti, che
incantano con la loro voce melodiosa ma priva di utilità e di giovamento. Se al
termine di un'operazione uno fugge via dal medico e non vuole che gli bendi la ferita,
accetta la parte dolorosa dell'intervento ma non attende l'effetto benefico
della cura: cosi chi non offre alla parola, che ha inciso e ferito la sua
stoltezza, la possibilità di cicatrizzare e rimarginare, si allontana dalla
filosofia morso e sofferente, ma privo di qualunque reale beneficio. Perché non
solo la piaga di Telefo è guarita dalla minuta limatura della lancia, come dice
Euripide, ma anche il morso che la filosofia imprime nei giovani di indole
buona è risanato dalla stessa parola che provocò la ferita.
Perciò è necessario che chi viene
ripreso accetti questa sofferenza e si lasci mordere senza restarne oppresso e
accasciato, ma come in una ceremonia iniziatica a cui l'ha introdotto la
filosofia, dopo avere sopportato le prime purificazioni e i primi travagli,
speri un po' di dolcezza e di luce dopo l'inquietudine e il turbamento di quei
momenti. In realtà, persino nel caso in cui la critica gli sembri immeritata, è
bene che uno si freni e resti, mentre l'altro parla, in paziente attesa: poi,
quando ha finito, deve andare da lui per esporgli le proprie argomentazioni e
pregarlo di riservare quella franchezza e quel tono appena usati contro di lui
per qualche sua reale mancanza.
17. Quando s'incomincia a leggere e a
scrivere, a suonare la lira o a frequentare una palestra, le prime lezioni
comportano notevole confusione, fatica e oscurità, ma poi, mano a mano che si
va avanti, si instaurano a poco a poco, come avviene nei rapporti
interpersonali, una grande familiarità e conoscenza, che rendono ogni cosa
gradita, agevole e facile da dire e da fare.
Cosi capita anche con la filosofia: i
primi approcci con il suo linguaggio e le sue tematiche danno la sensazione di
inoltrarsi su un terreno scivoloso e inconsueto, ma non per questo si deve
subito sentirsene intimoriti e rinunciare, intimiditi e scoraggiati; bisogna,
al contrario, affrontare i vari ostacoli e con perseveranza e desiderio di
procedere oltre, attendere che insorga quella familiarità che rende dolce ogni
cosa bella. E questa, in realtà, non tarderà molto a prodursi e a riversare sui
nostri studi una luce grande, ingenerando un ardente amore per la Virtù.
Davvero miserabile e vile è chi accettasse di trascorrere il resto della
propria esistenza senza questo amore, dopo aver disertato la filosofia per
pusillanimità.
I temi trattati dalla filosofia
possono forse presentare all'inizio qualche aspetto di difficile
intelligibilità per gli inesperti e per i giovani, ma ciò non toglie che la
responsabilità di ciò che in massima parte appare oscuro e incomprensibile
ricada proprio su di loro, dato che, indipendentemente dall'avere temperamenti
opposti, essi finiscono per commettere lo stesso errore.
Gli uni, infatti, per pudore e
ritegno, esitano a porre domande a chi parla e ad assicurarsi del senso reale
delle sue parole, e fanno cenni d'assenso dando ad intendere di averle
assimilate bene; gli altri, al contrario, spinti da inopportuna ambizione e
vano spirito di competizione verso i compagni, cercano di dimostrare la propria
acutezza e capacità di apprendimento, e dichiarando di avere capito prima di
avere compreso, finiscono per non comprendere un bel niente. Poi, a chi si
vergognava e se n'era stato in silenzio, capita che una volta lasciata l'aula
se la prende con se stesso e non sa che fare, e alla fine, costretto dalla
necessità, torna sui suoi passi e con accentuato senso di vergogna tormenta chi
ha parlato con una domanda dopo l'altra e non lo molla più, mentre gli
ambiziosi e presuntuosi continuano a nascondere e dissimulare l'ignoranza che
alberga dentro di loro.
19. Lasciamo perdere dunque simili
forme di stupidità o millanteria e pur di apprendere e assimilare le
riflessioni utili accettiamo anche le risatine di chi vuol dare a Vedere di
essere intellettualmente dotato, come fecero Cleante e Senocrate, che in
apparenza erano più lenti dei compagni, ma in realtà non demordevano
dall'apprendere e non si smarrivano d'animo, ed erano anzi i primi a prendersi
in giro, paragonandosi a vasi dall'imboccatura stretta o a tavolette di bronzo,
alludendo al fatto che facevano fatica ad accogliere le parole, ma poi le
conservavano in modo saldo e sicuro. Perché non solo, come dice Focilide spesso
deve subire delusioni chi aspira alla virtù, ma spesso deve accettare anche di
essere deriso e schernito, e sopportare canzonature e volgarità pur di eliminare
con tutto se stesso la propria ignoranza ed abbatterla.
Non bisogna trascurare, d'altra parte,
nemmeno l'errore contrario, che taluni commettono per indolenza, col risultato
di rendersi sgradevoli e fastidiosi: quando sono per conto loro non vogliono
scomodarsi, ma poi disturbano chi parla sottoponendogli in continuazione
domande sugli stessi argomenti, come uccellini
implumi che stanno sempre a bocca
aperta verso l'altrui bocca e vogliono ricevere da altri ogni cosa ormai pronta
e predigerita. C'è poi chi aspira a guadagnarsi la fama di persona attenta e
acuta dove non è il caso, e sfinisce chi parla a forza di chiacchiere e di
curiosità, sollevando in continuazione quesiti non necessari o chiedendo
spiegazioni su argomenti che non ne hanno
alcun bisogno: cosi strada corta
diventa lunga, come dice Sofocle, e non solo per loro, ma anche per gli altri.
Interrompendo in continuazione il maestro con domande vane e superflue, come in
un viaggio in compagnia, non fanno che intralciare l'andamento regolare della
lezione, che subisce fermate e ritardi. Questi tali somigliano, secondo
leronimo, a quei cagnolini vili e insistenti, che in casa mordono le pelli delle
fiere e ne strappano il vello, mentre se queste fossero vive si guarderebbero
bene dal toccarle. Dobbiamo esortare i pigri di cui parlavamo a mettere insieme
il resto da soli, una volta che l'intelligenza abbia fatto loro comprendere i.
punti essenziali, tenendo a mente quanto hanno ascoltato perché sia loro da
guida nel proseguimento della ricerca e accogliendo la parola altrui come
principio e seme da sviluppare ed accrescere. La mente non ha bisogno, come un
vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che
l'accenda e vi infonda l'impulso della ricerca e un amore ardente per la
verità. Come uno che andasse a chiedere del fuoco ai vicini, ma poi vi
trovasse una fiamma grande e luminosa e restasse là a scaldarsi fino alla fine,
cosi chi si reca da un altro per prendere la. Sua parola ma non pensa di dovervi accendere la
propria luce e la propria mente, e siede incantato a godere di ciò che ascolta,
trae dalle parole solo un riflesso esterno, come un volto che s'arrossa 'illumina
al riverbero della fiamma, senza riuscire a far evaporare e scacciare
dall'anima, grazie alla filosofia, quanto vi è dentro di fradicio e di buio.
Se è necessario qualche altro
consiglio per imparare ad ascoltare, bisogna tenere a mente quanto ora si è
detto, ma di pari passo con l'apprendimento esercitarsi nella ricerca
personale, per acquisire un abito mentale non da sofisti o da puri eruditi, ma
al contrario profondamente radicato e filosofico, considerando che il saper
ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene.
Il Catalogo di Lamptia, al n. 102,
menziona un Peri topi akoyein tòn philosóphon (Come si ascoltano i filosofi):
pochi dubbi che si tratti proprio del nostro opuscolo. L'aggiunta ton
philosóphon, assente nei codici, può apparire
giustificata dall'intento del
compilatore del Catalogo di eliminare ogni possibile ambiguità sull'argomento
dello scritto, dato che il verbo akoyein, in modo del tutto analogo al latino
audire, accanto al significato, puramente uditivo, di «ascoltare», ha anche
quello tecnico di «ascoltare una lezione o una conferenza». Ed è proprio questo
lo scopo che Plutarco si prefigge in questo opuscolo: insegnare a un giovane
come si debba comportare quando, terminato il ciclo degli studi secondari (gli
egkyklia paidomata), inizia a frequentare le aule dove insegnano i filosofi. Il
cambiamento è radicale, perché il ragazzo deve saper mettere a frutto
l'improvvisa libertà di cui gode, non avendo più un maestro di scuola che lo
controlla nello studio o un preciso programma da
imparare: gli si dischiude un mondo
completamente nuovo, in cui si può anche celare qualche insidia. Per capire,
dobbiamo svolgere qualche preliminare considerazione su come avveniva in quei
tempi l'insegnamento della filosofia': c'erano i corsi regolari, in cui, dopo
una prima fase di iniziazione alla materia e alla sua complessa terminologia,
si passava allo studio, per sommi capi, della storia della filosofia (un po'
come avviene oggi nei nostri licei); seguiva poi l'insegnamento della dottrina
professata dal maestro, con la lettura e il commento di testi classici del
fondatore o dei più illustri continuatori della setta. Anche gli studenti
potevano essere chiamati a commentare davanti ai compagni questo o quel passo,
per dimostrare il loro grado di assimilazione della materia (con un metodo
simile a quello che veniva praticato nelle scuole di retorica). I professori
tenevano anche lezioni aperte a una cerchia più vasta di uditori, vere e
proprie conferenze pubbliche, dove esponevano i propri convincimento e le
proprie riflessioni su temi prevalentemente morali, prendendo spunto da un
testo o da qualsiasi altra contingente occasione. L'insegnamento aveva però
anche un altro aspetto fondamentale, che consisteva in quella che si potrebbe
chiamare, in termini odierni, analisi e terapia di gruppo: il maestro sollevava
una questione di ordine morale e invitava gli studenti ad esporre ad alta voce
le loro riflessioni sull'argomento e a confessare le proprie eventuali debolezze,
assumendosi con il suo intervento il ruolo di guida spirituale e terapeuta
delle coscienze. La conversazione poteva essere anche privata, al termine della
seduta di gruppo: si instaurava cosi, tra discepolo e maestro, un legame
profondo, di incondizionata stima, che sfociava talora in un'autentica dipendenza
psicologica.
Questo è il mondo che si dischiude ora
al giovane Nicandro, il destinatario dell'opuscolo, un mondo affascinante e
fondamentale per la sua costruzione morale, ma in cui è necessario che
egli impari ad «ascoltare», per poter trarre il massimo profitto dalle
parole che ascolta e saperne al tempo stesso distinguere il reale valore. Ogni
affermazione deve essere sottoposta al vaglio costante della ragione, per
evitare il rischio, comune negli uomini, di accogliere anche ragionamenti falsi
e cattivi per simpatia o fiducia nei confronti di chi parla. Chi «ascolta» ha
doveri da assolvere e indispensabili norme comportamentali da seguire: e la
prima è restare in silenzio finché l'esposizione è in corso, evitando
atteggiamenti scomposti o intempestive interruzioni, e riservando le domande di
chiarimento e e eventua i obiezioni (che devono essere in ogni caso meditate e
pertinente alla fine del discorso.
Qualunque forma di presunzione, di
esibizionismo o di invidia deve essere bandita: bisogna disporsi all'ascolto
con animo bendisposto e pacato, «come se si fosse invitati a un banchetto sacro
o alle cerimonie preliminari di un sacrificio», apprezzando, Inefficacia o
almeno la buona volontà di chi espone in pubblico le proprie opinioni e cerca
di convincere gli altri ricorrendo agli stessi ragionamenti che hanno persuaso
lui. In caso di insuccesso occorre meditare sulle cause che l'hanno
determinato, facendo sempre e comunque tesoro dei difetti ravvisati negli altri
per poterli eliminare in noi. Si devono evitare atteggiamenti di
supponenza e al contrario troppo entusiastiche manifestazioni di assenso, che
risultano parimenti fastidiose per chi parla e per gli altri che
ascoltano. Bisogna concentrarsi sui concetti, e non sullo stile e la
dizione, e all'uscita esaminare e giudicare la lezione partendo da se stessi e
dal proprio stato d'animo, «valutando se qualche passione sia divenuta più
debole, qualche fastidio più leggero, se si siano rinsaldate in noi determinazione
e volontà, se sentiamo in cuore un rinnovato entusiasmo per la virtù e per il
bene». Ogni forma di indifferenza o timidezza di fronte ai moniti e ai
rimproveri deve essere bandita: bisogna lasciarsi curare dalle parole del maestro,
perché solo cosi «il saper ascoltare bene costituirà il punto di partenza per
vivere secondo il bene». L'opuscolo si conclude con una famosa immagine, che
unicamente alla raccomandazione di non rinunciare mai al proprio senso critico,
costituisce l'eredità concettuale più significativa del De recta ratione
audiendi: i giovani non devono essere riempiti di nozioni, ma accesi
d'entusiasmo per la conoscenza, ponendo nella loro mente il seme che li stimoli
a proseguire da soli lungo la strada della ricerca e della verità. Con modernità
non sorprendente per chi lo conosce, Plutarco pone qui l'accento su un principio
pedagogico di fondamentale importanza.
Il De recta ratione audiendi si
presenta anche come il manuale, il galateo del perfetto «uditore». Con l'abituale
acutezza psicologica Plutarco passa in rassegna la galleria, eternamente
uguale, dei tipi umani che frequentano le sale delle conferenze: ecco allora i
ritratti dell'esibizionista (che approfitta del minimo pretesto per portare il
discorso sui temi da lui preferiti), del malizioso (che cerca di porre in
difficoltà l'oratore con quesiti sofisticati e fuori luogo), dell'arrogante
(che segue accigliato e serioso, 'palesando un sovrano distacco),
dell'invidioso e malevolo (pronto a criticare tutto, sempre e comunque),
dell'ignorante (che non capisce nulla, ma non lo vuol dare a vedere e si
nasconde dietro grandi sorrisi e ampi cenni d'assenso), dell'adulatore, dell'ipocrita,
e cosi via.
Il tema principale dell'opuscolo è
trattato anche da Musonio Rufo (cfr. Gellio V, 1-4, e n. 54 alle pp. 293-294) e
da Epitteto (Diatr.II, 24), che riflette sulla necessità che gli studenti
imparino ad ascoltare, per poter essere di stimolo alla lezione del maestro.
Nella traduzione alcuni termini
perdono purtroppo il loro sapore: è il caso di akróasis (il latino auditio),
che indica appunto l' «ascolto» di una conferenza-lezione: l'italiano
«audizione», che ne è il calco diretto, ha assunto ormai significati tecnici
che ne rendono impossibile l'impiego. Si è cosi optato, quando era possibile,
per «ascolto» (che conserva almeno la connotazione «uditiva» della parola
greca), usando «lezione» negli altri casi.
L'opuscolo ebbe a partire dal
Cinquecento diverse traduzioni latine a stampa: tra le prime quelle del bresciano
Giovanni C alfurnio (Plutarchi liber qui de audiendo inscribitur, pubblicata a
Venezia, per i tipi di Bernardinus de Vitalibus nel 1505, nel volume Moralia
Plutarchi traducta), defl'umanista inglese Richardus Paceus (De modo audiendi,
nel volume Plutarchi Opuscula [.. 1, edito a Venezia dallo stesso stampatore
nel gennaio del 1522), e infine di Othmar Nachtigall (Ottomarus Luscinius), De
auditoris officio (inserita nel secondo volume dell'edizione Plutarchi
Chaeronei, philosophi bistoticique clarissimi, Opuscula moralia, stampata a
Lione «apud Sebastianum Gryphium», nel 1541). Le prime, e credo ultime,
traduzioni italiane si devono a M. Giovanni Tarchagnota (De l'ufficio de
l'udire, nel volume Alcuni Opuscoletti de le cose morali del Divino Plutarco in
questa nostra lingua nuovamente tradotti. Seconda parte [..], in Vinegia per
Michele Tramezino, 1549) e a Marcello Adriani il Giovane (Dell'udire, condotta
nella seconda metà del Cinquecento e pubblicata dal Piatti nel 1819: cfr. p.
11). o «lezione» negli altri casi.
L'opuscolo ebbe a partire dal
Cinquecento diverse traduzioni latine a stampa: tra le prime quelle del
bresciano Giovanni C alfurnio (Plutarchi liber qui de audiendo inscribitur,
pubblicata a Venezia, per i tipi di Bernardinus de Vitalibus nel 1505, nel
volume Moralia Plutarchi traducta), defl'umanista inglese Richardus Paceus (De
modo audiendi, nel volume Plutarchi Opuscula [.. 1, edito a Venezia dallo
stesso stampatore nel gennaio del 1522), e infine di Othmar Nachtigall
(Ottomarus Luscinius), De auditoris officio (inserita nel secondo volume
dell'edizione Plutarchi Chaeronei, philosophi bistoticique clarissimi, Opuscula
moralia, stampata a Lione «apud Sebastianum Gryphium», nel 1541). Le prime, e
credo ultime, traduzioni italiane si devono a M. Giovanni Tarchagnota (De
l'ufficio de l'udire, nel volume Alcuni Opuscoletti de le cose morali del
Divino Plutarco in questa nostra lingua nuovamente tradotti. Seconda parte
[..], in Vinegia per Michele Tramezino, 1549) e a Marcello Adriani il Giovane
(Dell'udire, condotta nella seconda metà del Cinquecento e pubblicata dal
Piatti nel 1819: cfr. p. 11).
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